Assaggiare l’olio extravergine: la nostra esperienza

7 settembre 2015
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Nel laboratorio dell'ONAOO all'Expo della Valle Arroscia

DSC_0821Come riconoscere un extravergine di qualità e distinguere cultivar e sapori? Un buon inizio è partecipare a una seduta di assaggio dell’Organizzazione Nazionale Assaggiatori Olio di Oliva.

L’ONAOO, emanazione dell’Unione Italiana delle Camere di Commercio, nasce a Imperia nel 1983 per impulso della locale Camera di Commercio e di un gruppo di assaggiatori storici con l’impegno di difendere, valorizzare e tutelare l’arte dell’assaggio dell’olio d’oliva. Noi abbiamo avuto la possibilità di fare questi assaggi ospiti degli organizzatori dell’Expo della Valle Arroscia.

Ma come si assaggia un olio? Vi raccontiamo in dettaglio la nostra esperienza. Il primo aspetto interessante – in comune con l’assaggio del vino e di altri alimenti – è che si sente di più con l’olfatto che con il gusto. Lo strumento principale infatti è stato il nostro naso.

Per quanto riguarda l’allestimento troviamo i campioni di extravergine all’interno di alcune coppette (a casa i bicchierini da liquore vanno benissimo), delle mele e dell’acqua per pulire la bocca e dei notes per scrivere le nostre impressioni.

 

DSC_0805L’assaggio si articola in tre fasi. Nella prima copriamo con il palmo della mano la coppetta per alcuni secondi e apriamo inspirando i composti aromatici volatili. Questo ci consente di sentire i profumi. Nella seconda portiamo in bocca un po’ d’olio, eseguendo l’assaggio in senso classico. Nella terza portiamo l’olio su tutta la mucosa orale e inspiriamo più volte cercando di interpretare nuovamente i profumi. Per valorizzare gli aromi la temperatura ottimale dell’olio è piuttosto elevata: tra i 26 e i 28 gradi (tenere il bicchierino in mano aiuta). La prova sul pane? Piacevole, ma poco usata a livello professionale.

Con questo metodo abbiamo compreso meglio la differenza tra due prodotti diversi. Il primo è un olio della Riviera ligure a prevalenza di cultivar taggiasca. Il secondo, invece, è siciliano e caratterizzato dalla hojiblanca, una cultivar di origine spagnola coltivata anche nel Sud Italia. Dal primo è arrivata al naso un’esplosione di mandorla fresca, mentre il secondo ci ha colpiti per il suo marcato sentore di foglia di pomodoro.

Qual è il più buono? Entrambi! Dipende dal piatto che vogliamo preparare. La taggiasca, ad esempio, si abbina a un pesce bollito delicato, oppure alla preparazione del pesto alla genovese: la sua delicatezza, infatti, non copre il basilico e i pinoli. Piatti più “forti”, invece, si abbineranno a oli più strutturati (insomma, è un po’ come per il vino).

Diversi i “falsi miti”da sfatare. Partiamo dal più comune: la piccantezza che sentiamo in bocca non è – come ritenuto da molti –  l’acidità dell’olio, ma i polifenoli che hanno anche proprietà antiossidanti. Come non è vero che gli oli strutturati siano meno digeribili. Né, tanto meno, che l’olio di semi sia più “leggero”: gli oli light purtroppo non esistono (si aggirano tutti sulle 850-900 kcal per etto con quasi il 100% di grassi). Anzi, un extravergine, essendo più profumato, arricchirà il nostro piatto utilizzandone una quantità minore. Per quanto riguarda la qualità è stato sottolineato come l’età degli alberi conti relativamente poco: è molto più importante la modalità con cui le olive sono raccolte, evitando il contatto col terreno e le lunghe permanenze sulle reti.

Vergine ed extravergine: la differenza è anche all’assaggio. Vergine è ogni olio estratto con il solo procedimento meccanico, senza manipolazioni chimiche, né miscelazioni con oli diversi. Per essere extra, cioè extravergine, l’olio deve soddisfare precisi parametri chimici (in particolare la bassa acidità) e deve presentarsi senza difetti all’esame organolettico. L’assaggiatore di olio – quindi – ha anche un ruolo riconosciuto dalla legge a tutela del consumatore.

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